L’Università al traguardo

L’UNIVERSITA’ AL TRAGUARDO

Cultura della qualità, pastorale universitaria e nuova evangelizzazione

+ Enrico dal Covolo

1. L’idea di università

Il titolo di questo paragrafo (L’idea di università) riprende intenzionalmente quello del celebre volume di John Henry Newman, The Idea of a University.1

Non ci addentriamo qui nelle laboriose e complesse vicende redazionali, che hanno segnato la stesura di quest’opera. Newman cominciò a scriverla già nel novembre del 1851 – era stato appena incaricato di presiedere alla fondazione dell’Università Cattolica di Dublino, dove poi fu Rettore dal 1854 al 1858 –, ma la pubblicò soltanto nel 1889, un anno prima di morire.

Nel bel mezzo di questi quarant’anni di gestazione, si colloca la violenta e provocatoria denuncia di Friedrich Nietzsche. Scrivendo il 15 dicembre 1870 all’amico Erwin Rohde – il celebre filologo classico, che proprio in quell’anno aveva conseguito l’abilitazione presso l’Università di Kiel –, Nietsche affermava: «L’università è un ostacolo a chi voglia dedicarsi totalmente alla ricerca della verità».

A questo riguardo il cardinale Angelo Scola, introducendo l’VIII Simposio Internazionale dei Docenti Universitari (Laterano, 23 giugno 2011), commentava: «Non mi pare il caso di soffermarmi su un giudizio così severo e discutibile. Ad ogni modo la questione “università” rappresenta un problema, che sicuramente continuerà a darci del filo da torcere nei prossimi decenni». Di fatto, proseguiva il cardinale, «l’interrogativo circa l’università – quale università? – costituisce un riverbero emblematico della domanda delle domande: quale uomo? La ragion d’essere dell’università e la modalità con cui viene proposta», concludeva Scola, «concorrono a delineare la fisionomia dell’uomo, quale protagonista della nostra società».

Ma torniamo all’idea di università di Newman. A dire il vero, essa non appare del tutto coerente: al contrario, contiene una smaccata contraddizione fra la teoria e la prassi.

Eppure, proprio questa incoerenza appare sommamente istruttiva e attuale, quando si considera il vivace dibattito che ne è seguito, e che tuttora continua.

Semplificando al massimo il discorso, e co-stringendolo un poco alle argomentazioni che svolgeremo, potremmo dire così:

da una parte Newman considera l’università come il luogo per l’insegnamento del sapere universale;

dall’altra parte, però, egli è ben consapevole che nessuna università è stata (e che nessuna università sarà mai) il luogo del sapere universale, perché qualche branca disciplinare rimarrà pur sempre trascurata, anche nelle università fornite del più grande numero di facoltà e dipartimenti.

Ma ecco il correttivo che Newman introduce, affinché la sua idea di università non resti una pura – per quanto affascinante – utopia: la filosofia e la teologia vengono assunte a garanti della correlazione e della sintesi tra le varie discipline, e così il sapere – filosoficamente e teologicamente fondato – fa comunque dell’università il luogo per l’insegnamento del sapere universale.

Molti oggi hanno rinunciato di fatto a una simile idea di università. Addirittura, c’è chi vorrebbe cambiare il nome di università, per ricorrere piuttosto al neologismo di multiversità.

In effetti, la frammentazione e la demarcazione dei saperi sembra procedere in maniera implacabile. Il concetto di scienza o di disciplina passa sempre di più attraverso la delimitazione precisa (a francobollo) dei contenuti e del metodo relativo. E nel proprio ambito, ciascuna disciplina rivendica la propria autorità e la propria verità. Così l’interdisciplinarità, quando si realizza, appare più formale che reale, al punto che – ormai – si parla più volentieri di interculturalità (qualunque cosa essa voglia dire) che di interdisciplinarità.

Le derive del relativismo sono evidenti, e non c’è bisogno di sottolinearle.

Entra qui la sfida di Newman circa l’idea di università come luogo del sapere universale, in quanto filosoficamente e teologicamente fondato.

Alcuni anni fa – il 30 giugno 2011, durante la consegna dei riconoscimenti ai tre vincitori della prima edizione del «Premio Ratzinger» –, Benedetto XVI ha pronunciato un Discorso, che illumina di concretezza questa idea di università.

Il Papa emerito si è chiesto anzitutto che cosa sia davvero la teologia, perché, diceva, «se la teologia è scienza della fede…, sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza, quando è ordinata o subordinata alla fede?».

Si tratta invero di una vexata quaestio, peraltro sempre attuale.

«Tali questioni» – riconosceva infatti Benedetto XVI –, «che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza», precisamente quello a cui abbiamo rapidamente alluso, «sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione».

Al di là delle argomentazioni successive – che il Papa emerito sviluppa da pari suo –, a noi qui interessa soprattutto la conclusione del discorso, là dove si legge: «Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia».

Da parte mia – se mi è permesso – vorrei parafrasare, e riconoscere onestamente che neanche questa mia nota giunge a dire qualche cosa di nuovo sul concetto di scienza, e neppure sul concetto di universitas scientiarum. Ma l’ultima osservazione di Benedetto XVI è illuminante, quando egli aggiunge: «Tuttavia è proprio di questa sfida» – cioè della sfida insita nella natura della teologia, intimamente connessa con la filosofia, fatta salva la relativa autonomia disciplinare –, «che l’uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio».

In effetti, dalle sue peculiari (e per certi aspetti paradossali) caratteristiche epistemologiche, la teologia ricava la propria forza di provocazione e di sfida nei confronti delle altre scienze – oggi sempre più specializzate nel metodo e nei contenuti, quanto più frammentate nell’universo del sapere –. Il fatto preciso che la teologia non procede iuxta principia propria, ma dalla Parola rivelata, la spinge – con motivazioni e risorse che non appartengono alle altre scienze – verso quella mèta ultima e complessiva di verità, a cui essa anela. Certo, a questa stessa mèta con-corrono in vario modo tutte le scienze dell’universitas, nella misura in cui esse sono – come devono essere – ministrae veritatis. Ma la teologia – se è vera teologia, cioè fedele alla sua epistemologia autentica – possiede un’istanza veritativa ulteriore, trasversale alle altre scienze, e ultimativa nel suo traguardo proprio.2

Ecco perché l’offerta formativa dell’università – che pure rimane fasciata anch’essa dalla crisi globale e dall’emergenza educativa del momento presente – dovrà perseguire, come mèta ultima, la sintesi filosofico-teologica, nel dialogo inesausto tra la fede e la ragione, tra la scienza di Dio e le scienze dell’uomo. Solo così l’università potrà dirsi degna del proprio nome, ed essere il luogo per l’insegnamento del sapere universale.

Per riassumere e concludere questo punto, cito – senza commentarlo, perché non ce n’è proprio bisogno – un passo dell’ultimo Discorso del Papa emerito sull’università: Benedetto XVI lo ha pronunciato nella basilica del monastero di San Lorenzo, a El Escorial di Madrid, durante la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (16-21 agosto 2011).

In tale occasione Benedetto ha affermato fra l’altro: «L’idea genuina di università è precisamente quello che ci preserva da una visione riduzionista e distorta dell’umano. In realtà, l’università è stata ed è tuttora chiamata ad essere sempre la casa dove si cerca la verità propria della persona umana… L’università incarna un ideale che non deve snaturarsi, né a causa di ideologie chiuse al dialogo razionale, né per servilismi ad una logica utilitaristica di semplice mercato».

E rivolgendosi direttamente ai docenti, Benedetto XVI ha aggiunto: «I giovani hanno bisogno di autentici maestri; persone aperte alla verità nei differenti rami del sapere, sapendo ascoltare e vivendo al proprio interno tale dialogo interdisciplinare; persone convinte, soprattutto, della capacità umana di avanzare nel cammino della verità… Questa alta aspirazione è la più preziosa che potete trasmettere in modo personale e vitale ai vostri studenti, e non semplicemente alcune tecniche strumentali e anonime, o alcuni freddi dati».

«Se verità e bene sono uniti», ha concluso il Papa emerito, «così lo sono anche conoscenza e amore. Da questa unità deriva la coerenza di vita e di pensiero, l’esemplarità che si esige da ogni buon educatore».3

2. La cultura della qualità accademica

Questo secondo sottotitolo è ricavato invece da un altro libro, più recente. Esso si intitola proprio così: La cultura della qualità.4

Che cosa significa cultura della qualità? E soprattutto, che cosa intendiamo qui per promozione della qualità? «Promuovere la qualità di una università/facoltà» – risponde il nostro volume – «significa evidenziare il valore delle attività svolte da tale istituzione, consolidarne gli aspetti positivi e, laddove necessario, migliorare quelli carenti. A tale scopo risulta appropriata l’azione valutativa. Occorre, perciò, in primo luogo identificare i criteri che, sulla base della sua missione, ne definiscono la qualità [si continua a parlare, come è evidente, di una università/facoltà]. In secondo luogo, è necessario raccogliere informazioni pertinenti, valide e affidabili circa lo svolgersi dell’attività istituzionale secondo i criteri precedentemente identificati. Infine, va espresso un giudizio di merito, a partire dai suddetti criteri, circa la qualità dell’attività svolta, tenendo conto delle informazioni raccolte» (CQ, p. 27).

Anche qui, cerco di co-stringere al massimo i contenuti del volume, ai fini delle nostre argomentazioni.

Per realizzare concretamente quell’idea di università, che abbiamo cercato di delineare fin qui, è indispensabile che la cultura della qualità divenga lo stile della vita accademica ordinaria. Ciò significa che le iniziative messe in atto per la promozione della qualità – pur con i loro eventuali limiti – non dovranno mai essere viste come un atto burocratico, fiscale, che bisogna pur adempiere (con un fastidio più o meno celato); e prima finiscono, meglio è: via il dente, via il dolore!

Significa piuttosto essere intimamente persuasi che le varie iniziative di valutazione e di promozione della qualità non puntano tanto a premiare o a punire un’istituzione accademica, un corso, un professore, un’attività… Si propongono invece di migliorare la possibilità di raggiungere i fini, per cui l’istituzione, il corso, il professore… agiscono. «Si tratta di offrire un sostegno alla realizzazione del processo formativo nel suo insieme e alla ricerca, e non di attuare una sorta di controllo fiscale o sanzionatorio» (CQ, p. 4).

Da questo punto di vista, la valutazione e la promozione della qualità, con le iniziative connesse, devono rappresentare una sollecitudine permanente delle nostre università.

Ritengo che il volume preparato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica (al di là di ogni appartenenza confessionale) possa costituire un punto sicuro di riferimento. Rappresenta anche un’ottima Guida per l’autovalutazione: in verità, dobbiamo persuaderci che il protagonista più efficace della cultura della qualità è ciascuno di noi, ogni persona che partecipa alla vita dell’università.

3. La pastorale universitaria

Che cosa bisogna intendere, quando si parla di pastorale universitaria?

La pastorale universitaria va compresa come accompagnamento efficace di tutti i membri della comunità accademica – un vero e proprio orientamentoverso la loro formazione integrale.

In maniera coerente, occorre chiarire un possibile malinteso (spesso ideologico; o forse dovuto anche al sostantivo che viene abitualmente impiegato: pastorale, appunto). E lo facciamo in maniera decisa, per essere chiari in massimo grado: la pastorale universitaria non è una roba da preti.

Al contrario, la pastorale universitaria – intesa nel modo che abbiamo detto – riguarda tutti i membri della comunità accademica: ognuno di loro ne è responsabile e protagonista, nessuno escluso, dal Rettore al Personale ausiliario.

3.1. Vale anche qui la regola d’oro della pedagogia. L’insostituibile protagonista del processo educativo – ferma restando l’azione dello Spirito e della sua grazia – è il formando stesso, e dunque ciascuno di noi.

La formazione è prima di tutto autoformazione.

Così la pastorale (universitaria) deve essere sempre condotta nel rispetto pieno della libertà personale, e nella sollecitazione intelligente e appassionata delle migliori energie spirituali di ciascuno.

L’aula del corso accademico è il primo luogo della pastorale universitaria. E’ lì che il docente – come un buon pastore – promuove nello studente l’integrazione feconda tra fede e ragione, tra scienza e vita, qualunque sia la facoltà (o le discipline) dell’insegnamento.

«Lo sguardo della scienza riceve un beneficio dalla fede: questa invita lo scienziato a rimanere aperto alla realtà, in tutta la sua ricchezza inesauribile. La fede risveglia il senso critico, in quanto impedisce alla ricerca di essere soddisfatta nelle sue formule, e la aiuta a capire che la natura è sempre più grande. Invitando alla meraviglia davanti al mistero del creato, la fede allarga gli orizzonti della ragione, per illuminare meglio il mondo che si schiude agli studi della scienza» (Lumen fidei 34).

In queste parole di Papa Francesco – che ho appena citato – possiamo raccogliere il frutto maturo dell’Anno della fede, e confermare l’impegno dell’università per la nuova evangelizzazione.

In particolare, è d’obbligo per noi la ricezione attenta e grata della seconda parte dell’Enciclica («Se non crederete, non comprenderete», nn. 23-36), articolata nei seguenti paragrafi: Fede e verità; Conoscenza della verità e amore; La fede come ascolto e visione; Il dialogo tra fede e ragione; La fede e la ricerca di Dio; Fede e teologia.

3.2. E’ vero allora che la pastorale universitaria non è qualche cosa di periferico (o di lodevolmente affiancato) alla vita accademica vera e propria.

Vale, invece, il contrario.

La pastorale universitaria – che accompagna esistenzialmente gli studenti e i Docenti nel conseguimento dell’universitas scientiarum, cioè della Verità tutta intera («La domanda sulla Verità… è una domanda sull’origine di tutto, alla cui luce si può vedere la mèta, e così anche il senso della strada comune»: Lumen fidei 25) –; ebbene, la pastorale universitaria scorre attraverso le varie discipline, come scorre attraverso la convivenza quotidiana dei vari membri della comunità accademica.

Tutto questo – si noti – vale a prescindere dalla tipologia istituzionale dell’università (se statale, libera, cattolica o pontificia…). Vale per ogni università che voglia essere degna di questo nome.

In realtà, la pastorale universitaria (correttamente intesa) salvaguarda e garantisce l’idea stessa di università, così come ci è stata trasmessa, a partire dalla fondazione delle università più antiche.

Lo abbiamo già detto, e lo ripetiamo: la mèta ultima da perseguire nelle accademie è la sintesi filosofico-teologica, attraverso un dialogo inesausto tra fede e ragione, tra la scienza di Dio e le scienze dell’uomo.

Si tratta di una sfida immane, in controtendenza totale rispetto ad altre idee di università (le idee di multiversità, di politecnico, e simili), che oggi sembrano prevalere.

Come osserva Laurent Lafforgue in un saggio veramente ispirato, oggi «scienziati e credenti sono diventati quasi due umanità distinte, che si temono l’un l’altra come temono l’immagine della propria notte. Grande è diventata la tentazione, per quell’impresa originariamente cattolica che è l’università, di pensare di uscire dalla propria notte perdendo la fede. E in effetti, la maggior parte degli universitari ha perso la fede. Ma se la fede fosse vana, l’università non avrebbe nessun senso. E se la fede fosse totalmente perduta, non ci sarebbe più università. Grande è diventata anche la tentazione, per i credenti, di abbandonare l’università, di disinteressarsi delle scienze in nome della fede. Ma a che vale una fede che rifiuta la notte? Non è in nostro potere di uscire dalla notte con le nostre forze, crederlo sarebbe mentire a noi stessi. Ci è solo chiesto di restare fedeli alla verità, di cercarla nelle nostre notti, di amarla e di servirla».5

La pastorale universitaria, assumendo senza riserve questa missione accademica, accompagna i suoi destinatari verso la maturazione di una vera e propria sintesi esistenziale tra fede, ragione ed esperienza di vita. Si tratta, ovviamente, di una sintesi sapienziale, robustamente caratterizzata dal punto di vista filosofico e teologico.

In vista di tale mèta la pastorale coinvolge gli universitari a 360°, dalla testa ai piedi

3.3. Quali sono le tappe caratteristiche di questo orientamento pastorale?

Concentrando l’attenzione sugli studenti, possiamo distinguere tre tappe fondamentali: prima, durante e dopo la frequenza accademica.

* Ancor prima della frequenza accademica è necessario aiutare i giovani nella scelta dell’università e della facoltà.

Lo sappiamo bene: si tratta di una vera e propria scelta vocazionale, che culminerà poi nella scelta del tema della tesi e della specializzazione.

Bisogna anzitutto che i Docenti si impegnino, in qualunque modo, a far conoscere l’offerta formativa che caratterizza l’università (gli studenti devono esserne ben avvertiti, fin dall’inizio); che i Docenti raggiungano, nei limiti del possibile, i giovani delle scuole superiori – magari accompagnati dai rappresentanti degli studenti –; che promuovano e sostengano iniziative di università aperta (open days); che favoriscano il dialogo personale con i giovani…

In particolare, chi conduce il colloquio per l’iscrizione deve essere consapevole della propria responsabilità. Non si tratta affatto di una formalità regolamentare: al contrario, bisogna aiutare sapientemente il discernimento vocazionale del candidato. Nel colloquio bisogna far emergere, con tatto e discrezione, le motivazioni autentiche (non fasulle), che giustificano la scelta di questa università, di questa facoltà, di questa specializzazione…

Solo così lo studente potrà giungere alle soglie della laurea con la scelta della specializzazione già fatta, maturata attraverso tutto il ciclo di studi compiuti, e inserire in essa la scelta della tesi.

Annota a questo riguardo Raffaele Farina in un manuale di Metodologia ormai famoso, che molti di noi hanno studiato: «Per circostanze varie, talvolta indipendenti dalla propria volontà (genitori o superiori, per esempio, che vogliono per lo studente una determinata specializzazione, o che non la vogliono affatto; ma anche lo studente stesso, che talvolta non è sufficientemente determinato o attrezzato), questo ideale non si realizza. Ciò non deve impedire (…) una seria riflessione su ciò che [realmente] si vorrebbe fare, sulla specializzazione da dare alla propria professione. Non parliamo [qui] dei vantaggi e degli svantaggi della specializzazione: ne è stato già scritto abbastanza».6

* Siamo entrati così nella seconda tappa dell’orientamento, quella durante la frequenza accademica.

E’ soprattutto in questa fase che si esercita l’accompagnamento dalla testa ai piedi. Così il discorso da svolgere sarebbe lungo e complesso.7 Almeno una cosa, però, ci tengo a dirla subito: è il privilegio del piccolo, di cui parla il Vangelo di Matteo nel discorso di Gesù alle guide della comunità (18,1 ss.). La comunità accademica regola il suo passo su chi fa più fatica. Si noti, non nel senso di un pericoloso livellamento della qualità verso il basso; bensì nel senso della condivisione e della solidarietà: chi più ha, più dona.

Entra qui il discorso del tutoraggio (o tutorato). La comunità accademica deve impegnarsi a individuare e ad aiutare gli studenti in difficoltà, promuovendo ogni genere di iniziativa, affinché nessuno vada perduto.

Questa è la comunità del buon pastore…

* Infine, l’orientamento si esercita anche dopo la frequenza accademica.

Di nuovo, si tratta di aiutare la vocazione degli studenti (e così, solo così, è promossa anche la vocazione dei Docenti…).

Purtroppo, in molti casi noi diplomiamo dei laureati che si avviano verso la disoccupazione, o la sottooccupazione, o verso impieghi avventizi, che poco o nulla hanno a che vedere con la formazione ricevuta.

Ovviamente, questo discorso riguarda in maniera più evidente gli studenti laici.

In questo àmbito occorre far lavorare la fantasia della carità: servono convenzioni con enti pubblici e con privati, masters realmente orientati alla professione, possibilità di tirocini pratici…

In ogni caso, non possiamo abbandonare alla loro sorte gli studenti che hanno concluso la propria frequenza. In particolare, il relatore della tesi – che stabilisce con lo studente un rapporto speciale – non può non sentirsene responsabile.

4. L’università per la nuova evangelizzazione

Edgar Morin, in un testo assai diffuso, ha delineato con chiarezza l’obiettivo formativo, a cui l’università deve puntare.

Si tratta in effetti di un’osservazione di sintesi, con la quale possiamo concludere le nostre riflessioni: «L’obiettivo della formazione», scrive questo filosofo francese, ancora vivente, salutato dai media, in maniera un po’ enfatica, come il padre del pensiero della complessità nel tempo della globalizzazione; ebbene, secondo Morin «l’obiettivo della formazione non è dare all’allievo una quantità sempre maggiore di conoscenze, ma è costituire in lui uno stato interiore profondo, una sorta di polarità dell’anima che lo orienti in senso definitivo, per tutta la vita. Ciò significa che imparare a vivere richiede non solo conoscenze, ma la trasformazione, nel proprio essere mentale, della conoscenza acquisita in sapienza, e l’incorporazione di questa sapienza nella propria vita».8

Personalmente sono sempre più convinto che – di fronte all’emergenza educativa e alla crisi globale dei valori – una risposta per uscire dalla crisi c’è. E noi l’abbiamo a portata di mano, questa risposta, a volte senza neanche rendercene ben conto: la risposta è una università che funziona bene, un luogo che sia autentica formazione dei formatori.

Proprio qui risiede la missione peculiare delle istituzioni accademiche per la nuova evangelizzazione. «Un posto speciale» – hanno scritto i Vescovi nel Messaggio conclusivo della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo, dedicata alla Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede (ottobre 2012) – «un posto speciale lo occupano le istituzioni formative e di ricerca: scuole e università. Ovunque si sviluppano le conoscenze dell’uomo e si dà un’azione educativa, la Chiesa è lieta di portare la propria esperienza e il proprio contributo per una formazione della persona nella sua integralità. In questo ambito va riservata particolare cura alla scuola cattolica e alle università cattoliche, in cui l’apertura alla trascendenza, propria di ogni sincero itinerario culturale e educativo, deve completarsi in cammini di incontro con l’evento di Gesù Cristo e della sua Chiesa» (n. 10).

«Le Università», ribadisce l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco, «sono un ámbito privilegiato per pensare e sviluppare questo impegno di evangelizzazione in modo interdisciplinare e integrato» (n. 134).

Purché l’università rimanga fedele a se stessa, alla sua identità e alla sua missione originaria; luogo di promozione della vera cultura; palestra di dialogo inesausto tra la fede e la ragione.9

+ Enrico dal Covolo

1  Da qualche anno il volume è disponibile anche in lingua italiana, grazie alle cure di Angelo Bottone e di Vincenzo Cappelletti (L’idea di università, Edizioni Studium, Roma 2005). L’idea di Università è anche il titolo del recente fascicolo della Rivista «Communio», n. 235 (2013) [qui interessa specialmente per le pp. 7-86, e in particolare per il saggio di Jean-Robert Armogathe, Newman rivisitato, pp. 77-86]. A integrazione della vasta bibliografia sul tema, aggiungo, curato da Francesco Alfieri e da Mirko Integlia, il volume di saggi in mio onore, L’università oggi e le sue sfide (Morcelliana, Brescia 2015), e ora il libro-intervista di Massimiliano Padula, L’Università come missione. Conversazione con Enrico dal Covolo (LUP, Città del Vaticano 2017).

2 A questo proposito, vedi il mio contributo su La teologia: una sfida per le “scienze altre”?, in Manlio Sodi (cur.), Theo-loghía. Risorsa dell’Universitas scientiarum (Lateran University Press, Città del Vaticano 2011), pp. 23-36.

3 Sul contributo del Papa emerito alla riflessione sull’università, l’educazione e la cultura, vedi da ultimo, a cura di J. Steven Brown, Pope Benedict XVI. A reason open to God. On Universities, education & culture (The Catholic University of America Press, Washington, D.C. 2013). Riguardo invece all’attuale Pontefice, cfr. soprattutto Angelo Scola, La missione dellUniversità Pontificia alla luce del magistero di Papa Francesco, in Francesco Alfieri – Mirko Integlia (curr.), L’università oggi e le sue sfide…, pp. 43-51.

4 Cfr. La cultura della qualità. Guida per le Facoltà Ecclesiastiche, a cura della Congregazione per l’Educazione Cattolica (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011). D’ora in poi: CQ.

5 Laurent Lafforgue, La ricerca ha un senso? Alcune note di un matematico cattolico, in «Communio» 235 (2013), pp. 14-27, qui 27.

6 Raffaele Farina, Metodologia. Avviamento alla tecnica del lavoro scientifico (LAS, Roma 1994), p. 45. Vedi anche Pontificia Università Lateranense, Norme redazionali e orientamenti metodologici per gli elaborati accademici (Nuova edizione, Lateran University Press, Città del Vaticano 2015), pp. 13-34.

7 Soprattutto su questa seconda fase dell’accompagnamento, vedi ora Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi, Torino 2014: in particolare il capitolo quarto, “L’ora di lezione”, pp. 83-128).

8 Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (Raffaello Cortina Editore, Milano 2000), p. 45. Dello stesso autore vedi anche, più recentemente, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015: «E’ tutto il sistema di educazione contemporaneo, fondato sul modello disciplinare dell’università e sulla disgiunzione tra scienza e cultura umanistica, che bisogna… rivoluzionare» (p. 103).

9 Su questo tema – qui appena enunciato – cfr. Angelo V. Zani – Michele Pellerey, Le istituzioni accademiche ecclesiastiche. Cultura della qualità e nuova evangelizzazione (LUP, Città del Vaticano 2012, soprattutto per le pp. 9-31). Vedi inoltre Lumen fidei 32-34.

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