GESÙ «CRESCEVA»
Un “mistero” della vita di Cristo
don Francesco Mosetto
Il tema della crescita di Gesù, alla quale il terzo evangelista accenna più volte, ha qualcosa da dire per quanti oggi sono “adolescenti”? Tento di rispondere a questa domanda partendo da quanto può offrire l’esegesi e allargando l’attenzione al tema complementare della crescita dei cristiani (1.). Secondo un’ottica più ampia, quella dei “misteri della vita di Cristo”, passo a interrogare sotto questo riguardo i Padri della Chiesa (2.), sulla cui scia si pone l’esegesi medievale (3.). Una rapida carrellata attraverso le epoche successive ci conduce alle soglie di quella inaugurata all’inizio del secolo scorso dall’abate benedettino Columba Marmion. Sulla scorta dell’esplorazione condotta, ritornerò su quegli aspetti del “mistero” che interessano il tema della “educazione cristiana” (4.), traendone alcune conclusioni pratiche.
1. I testi
Luca conclude il racconto della presentazione al tempio con un brevissimo sommario: «Il bambino cresceva (ēúxanen) e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 2,40). Il secondo testo si legge al termine dell’episodio del pellegrinaggio a Gerusalemme: «Gesù cresceva (proékopten; letter.: “progrediva”) in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Quando poi introduce il ministero pubblico di Gesù, l’evangelista scrive: «Venne a Nazaret, dove era cresciuto (ou ên tethramménos)» (Lc 4,16); ma si potrebbe tradurre: “dove era stato allevato”. Del lungo periodo trascorso a Nazaret, Luca ricorda un solo fatto significativo: il pellegrinaggio di Gesù dodicenne al tempio (Lc 2,40-52). Nelle parole con le quali per la prima volta egli manifesta la sua autocoscienza spicca il caratteristico verbo dei/, “è necessario”, che prelude a un tema fondamentale del Vangelo (cf. Lc 24,26.46).
Trattandosi di testi ben noti, basterà segnalare: a) l’intenzionale contatto con i modelli biblici, in particolare 1Sam 2,21.26: «Il fanciullo Samuele cresceva presso il Signore… Il giovane Samuele andava crescendo in statura e in bontà davanti al Signore e davanti agli uomini»; b) il parallelismo con l’analoga notizia su Giovanni: «il bambino cresceva e si fortificava nello spirito» (Lc 2,80); c) l’accento posto sul tema della «sapienza», illustrato in modo suggestivo dall’episodio del tempio; d) l’allusione al fatto che anche Gesù è stato “educato” dai due “genitori”, Maria e da Giuseppe.
Balza agli occhi che, mentre il quarto evangelista afferma in modo globale: «il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,13), per Luca la crescita di Gesù è importante sia l’aspetto biografico sia sotto quello teologico. Con sensibilità ellenistica, egli ci consegna i tratti di un fanciullo e di un adolescente dalla personalità armonica, ricca di qualità spirituali e morali. Ma nello stesso tempo suggerisce che non solamente l’annuncio, la nascita e gli episodi della prima infanzia di Gesù sono carichi di “mistero”, ma anche la sua crescita umana.
Ai testi citati si devono aggiungere gli accenni all’apprendistato e al mestiere esercitato in quegli anni: «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,55; cf. Mc 6,3 ecc.). Infine, nella predicazione di Gesù, per es. nelle parabole, è possibile riconoscere l’esperienza domestica e aspetti dell’ambiente sociale nel quale era cresciuto.
Gesù e i bambini
L’atteggiamento di Gesù nei confronti dei bambini e le parole che li riguardano riflettono in qualche misura la sua stessa infanzia. È possibile, per esempio, cogliere un’eco dei giochi infantili, ai quali il piccolo Gesù certamente non si sottrasse, nella parabola dei fanciulli capricciosi, il cui modo di comportarsi è preso come esempio di irrazionalità (Mt 11,16-19; Lc 7,31-34).
Allorché i discepoli discutono chi tra loro è «il più grande» (Mc 9,33-37 parr.) Gesù reagisce con un gesto («preso un bambino, lo pose in mezzo a loro…»), il cui significato è variamente spiegato dagli evangelisti. Secondo Marco, Gesù risponde: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Un bambino è appunto «l’ultimo di tutti». Gesù parla per esperienza propria, quella della sua infanzia a Nazaret. Anch’egli, quando era piccolo, si sentì «l’ultimo di tutti». Per Matteo, invece, si tratta di «diventare come i bambini / farsi piccolo come i bambini» (Mt 18,3s), ossia di convertirsi, per poter entrare nel regno dei cieli. Tutti e tre i Sinottici aggiungono un’ulteriore applicazione: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me (Mc 9,37 parr.).
Quando i discepoli, preoccupati di difendere il Maestro da sollecitazioni indiscrete, cercano di allontanare i bambini che i genitori gli presentano, Gesù interviene: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio» (Mc 10,13-16 parr.). Un’affermazione di principio che si deve ricondurre alla «globalità del pensiero messianico di Gesù: secondo il suo piano misterioso, Dio dona il suo regno e il suo amore ai poveri, ai piccoli, ai bambini, in quanto queste categorie sono ostensori della potenza e universalità di salvezza amorosa del Padre…» (C. Bissoli, Bibbia e educazione, 262; cf. J. Dupont, Les Béatitudes, II, 215-218).
I gesti e le parole di Gesù sono autoreferenziali sotto un duplice profilo: egli stesso ha sperimentato la condizione di chi è “piccolo” e perciò stesso «l’ultimo di tutti»; in secondo luogo, Gesù si identifica con i piccoli e i poveri (cf. Mt 25).
Il tema della crescita del cristiano
L’approccio “canonico” ai testi biblici – raccomandato dal documento della Pont. Commissione Biblica del 1993 e dall’esortazione apostolica “Verbum Domini” di Benedetto XVI – consiste nel leggere i singoli testi nel contesto di tutta la Bibbia così da esserne illuminati e, viceversa, in modo da riverberare la luce che è propria di ciascun testo sull’insieme delle Scritture. In questo prospettiva, i testi evangelici sulla crescita di Gesù si devono mettere in relazione non solamente con il retroterra biblico, bensì anche – come facevano i Padri della Chiesa – con quanto il N.T. insegna circa la crescita del cristiano.
Per san Paolo la crescita del credente si colloca all’interno della crescita della Chiesa, che è il «corpo di Cristo». Essa è soprattutto opera di Dio: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere». La Chiesa si sviluppa come una pianta e come un edificio in costruzione, in quanto è il «tempio di Dio» (1Cor 3,6s.17; cf. 2Cor 6,16). Quanto alle dimensioni della crescita, Paolo sottolinea la crescita nella fede e nell’amore (cf. 2Cor 10,15; Fil 2,9s). Ai fedeli di Filippesi l’apostolo ricorda la dimensione umana, direi umanistica, della crescita personale: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,4-9).
Il tema è elaborato nelle lettere ai Colossesi e agli Efesini. In Cristo Gesù, la «pietra d’angolo» sulla quale è fondata, «tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,21; cf. 1Pt 2,4s). Da Cristo, «capo del corpo che è la Chiesa, tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legamenti e cresce secondo il volere di Dio» (Col 1,18s); cresce «secondo l’energia propria di ogni membro, in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,16). Cristo è detto «capo» della Chiesa sia perché è il suo «Signore», sia in quanto – secondo le concezioni fisiologiche dell’antichità – ne è il principio vitale (cf. Ef 4,7ss; Col 1,18s; 2,19). La crescita tende a una meta: «…finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).
Il «corpo di Cristo» cresce nelle sue singole membra, i cristiani. Tra di essi l’Apostolo distingue due livelli di maturità: gli «psichici», detti anche «carnali», e gli «spirituali», detti anche «perfetti»: «Tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza… Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali…» (1Cor 2,6; 3,1ss). Pietro riprende questa immagine nella Prima lettera: «rigenerati» nel battesimo, i cristiani crescono «verso la salvezza» (1Pt 2,2), nutrendosi di un «latte spirituale», che è la stessa Parola, mediante la quale è avvenuta la rinascita (1,3.23; 2,2).
L’appello appassionato, che Paolo rivolge ai Galati, indica con chiarezza l’obiettivo cui tende la crescita dei credenti: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (Gal 4,18-19). Questo concetto riceve altre formulazioni. «Quelli che egli da sempre ha conosciuto, Dio li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Nel battesimo i fedeli si sono «rivestiti di Cristo» (Gal 3,27) in senso incoativo, come l’inizio di un processo che deve continuare (cf. Rm 13,14; Ef 4,24).
Le “deuteropaoline” insistono sul tema della conoscenza: «Non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio» (Col 2,9s). All’«uomo perfetto», punto di arrivo della crescita, la Lettera agli Efesini contrappone l’immaturità dei fanciulli, i quali sono come «in balìa delle onde»: fuori metafora, sono «trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina». La crescita è compromessa quando i credenti si lasciano sedurre e ingannare da astuti maestri che trascinano all’«errore» (Ef 4,13s; cf. Col 2,4.8). In una splendida sintesi la Lettera agli Efesini indica la via regia della crescita: «fare la verità nell’amore» (Ef 4,15).
2. La riflessione dei Padri della Chiesa
Dai testi evangelici, come da ricca sorgente che si ramifica in tanti ruscelli, i Padri della Chiesa trassero insegnamenti riguardanti la cristologia e la soteriologia, l’antropologia cristiana e la spiritualità. Essi non trascuravano la littera; ma, si concentravano sul senso spirituale del testo, sollecitati da preoccupazioni pastorali e come anche dalle dispute dottrinali.
Lettura cristologica
Il più antico commento che ci sia giunto al Vangelo secondo Luca sono le Omilie che Origene tenne a Cesarea di Palestina negli anni 233-234. Tre di esse (la 18a, la 19a e la 20a) sono dedicate a Lc 2,40-52. L’Alessandrino collega la crescita di Gesù con la kénosis del Verbo: «Siccome “si era annientato assumendo la condizione di servo” (cf. Fil 2,7), non appena fu offerto il sacrificio per la sua purificazione ricevette pienamente in sé ciò di cui si era spogliato, non nel senso che il corpo di lui crebbe in modo subitaneo, ma in quanto si manifestò come qualcosa di ancor più sacro…» (Omilie su Luca XVIII, 1-2).«Si era umiliato assumendo la condizione di servo e, con la stessa potenza con la quale si era umiliato, cresce. Era apparso debole, perché aveva assunto un corpo debole, e proprio per questo nuovamente si fortifica. Il Figlio di Dio si era annientato, e per questo di nuovo si colma di sapienza. “E la grazia di Dio era su di lui”: non quando raggiunse l’adolescenza, non quando insegnava pubblicamente, ma quando era ancora fanciullo possedeva la grazia di Dio. E come ogni cosa in lui era ammirabile, così lo fu anche la sua fanciullezza, sì da essere ricolmo della sapienza di Dio» (XIX, 1-2).
Cirillo di Alessandria († 444) formula l’interpretazione che diventerà classica: «Il Verbo manifestò gradualmente la sua sapienza in modo proporzionale all’età del corpo. Il corpo allora cresce in statura e l’anima in sapienza. La natura divina non può conoscere accrescimento in nessuno di questi due aspetti, dal momento che il Verbo di Dio è perfetto in tutto. A buon diritto la crescita della sapienza è connessa con la statura del corpo, perché la natura divina ha rivelato la sua sapienza in proporzione con la misura della crescita del corpo» (Commento al Vangelo di Luca, Omilia 5).
Il teologo e monaco siro Giovanni Damasceno († 749 ca.) spiega che la crescita di Gesù nella sapienza è dovuta all’unione ipostatica tra l’umanità e la divinità: «È detto crescere in sapienza, età e grazia poiché da una parte cresceva in età e dall’altra portava a manifestazione attraverso il crescere dell’età la sapienza che era in lui, facendo come propria crescita la crescita umana in sapienza e in grazia […] e appropriandosi di ciò che è nostro sotto ogni aspetto.Coloro invece i quali dicono che egli cresceva in sapienza e grazia come se ricevesse un’aggiunta di queste, dicono che l’unione non è avvenuta fin dalla prima esistenza nella carne e neanche annunciano l’unione secondo l’ipostasi, ma al contrario, seguendo il folle Nestorio, fingono un’unione relativa ad una semplice inabitazione… Infatti, se la carne fu unita realmente al Verbo divino fin dalla sua prima esistenza […], come non fu completamente ricca di ogni sapienza e grazia? Infatti, non assunse parte alla grazia e neanche aveva parte, per grazia, a ciò che è del Verbo; ma piuttosto faceva sgorgare al mondo la grazia, la sapienza e la pienezza di tutti i beni, poiché attraverso l’unione secondo l’ipostasi le prerogative umane e quelle divine erano diventate dell’unico Cristo e il medesimo era insieme Dio e uomo» (De fide ortodoxa, III, 22).
Lettura soteriologica
L’incarnazione del Verbo è finalizzata alla salvezza dell’uomo. La lettura soteriologica è già presente in Ireneo di Lione, il quale in polemica con gli gnostici valentiniani afferma che la sarx del Logos ripercorse tutte le età della vita dall’infanzia alla piena maturità: «Quando fu maestro, aveva l’età di un maestro. Non rifiutava né oltrepassava la natura umana, né aboliva in se stesso la legge del genere umano, ma santificava ogni età per la somiglianza che ciascuna aveva con lui. Egli è venuto a salvare tutti per mezzo di se stesso; intendo dire tutti coloro che rinascono in Dio: infanti, fanciulli, ragazzi, giovani e adulti. E per questo è passato attraverso ogni età: si è fatto infante per gli infanti, per santificare gli infanti; fanciullo tra i fanciulli, per santificare coloro che avevano questa stessa età divenendo al tempo stesso per loro esempio di pietà, di giustizia e di sottomissione; giovane tra i giovani, per divenire esempio per i giovani e consacrarli al Signore. Così si è fatto adulto tra gli adulti, per essere un maestro perfetto in tutto, non solo in rapporto all’esposizione della verità, ma anche in rapporto all’età, per santificare anche gli adulti divenendo esempio anche per loro» (Contro le eresie, II, 22,4). «Il Logos di Dio, perfetto qual era, si fece bambino con l’uomo bambino, non per se stesso, ma per lo stato infantile dell’uomo, rivelandosi come l’uomo poteva conoscerlo» (IV, 38, 2).
Ambrogio di Milano, il quale attinge a piene mani a Origene, vede nell’Incarnazione del Verbo una manifestazione della sua condiscendenza, secondo le parole di Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti…» (cf. 1Cor 9,22). La crescita di Gesù ha valore salvifico ed è esemplare e per ogni cristiano: «Egli dunque fu piccolo, fu un fanciullo, affinché tu possa essere uomo perfetto…» (Esposizione del Vangelo secondo Luca II, 41).
Anche secondo Beda il Venerabile († 735), erede dei Padri e maestro del medioevo, la crescita di Gesù ha un valore salvifico: «Un bambino è nato per noi (cf. Is 9,6) affinché crescendo e progredendo tra i piccoli li conducesse a poco a poco a ricevere gli arcani della sua virtù e della sua grandezza» (Omelie sul Vangelo II,48). Gesù crebbe nella sapienza «perché scelse questi effetti della pia assunzione (della natura umana) per la nostra salvezza, affinché fossero egualmente salvate la carne e l’anima razionale da lui assunte» (ivi, II, 52).
Lettura antropologica
È di nuovo Origene a inaugurare la lettura “antropologica” dei testo lucano. Osservando che Gesù «progrediva non solamente “in sapienza”, ma altresì “in età”», nella sua crescita Origene vede l’archetipo della crescita spirituale del cristiano: «C’è infatti un progresso anche nell’età. Nelle Scritture si parla di due generi di età: quella fisica, che non è in nostro potere, ma dipende dalla natura; quella dell’anima, che è davvero in nostro potere, secondo la quale, se lo vogliamo, cresciamo ogni giorno fino a raggiungere la sommità, così che “non siamo più fanciulli sballottati e trasportati da ogni vento di dottrina” (Ef 4,14), ma smettendo di essere fanciulli cominciamo a essere uomini adulti: “Quando sono diventato uomo, ho abbandonato ciò che era proprio del fanciullo” (1Cor 13,11)…». A queste due citazioni Origene aggiunge un terzo testo paolino: «… fino a che tutti giungiamo all’uomo perfetto, nella misura dell’età della pienezza di Cristo” (cf. Ef 4,13)», ed esorta a spogliarsi di ciò che appartiene all’infanzia per raggiungere la maturità spirituale (Omilie su Luca XX, 6-7).
Lettura etico-spirituale
Anche questa linea interpretativa si trova già in Origene: «Poiché era un fanciullo, è trovato in mezzo ai maestri, mentre li santifica e li istruisce; onde è detto che “sedeva in mezzo ai dottori, ascoltandoli e interrogandoli”; questo, secondo l’obbligo dell’età, per insegnarci che cosa conviene ai fanciulli, per quanto siano saggi e istruiti, affinché ascoltino i maestri, piuttosto che voler loro insegnare, e non si mettano in mostra con vana ostentazione. Li interrogava non per imparare, bensì per istruirli con le sue domande: dalla medesima fonte di dottrina scaturisce sia l’interrogare sia il rispondere saggiamente…» (Omilie su Luca XIX, 6). Nella sua sottomissione a Maria e Giuseppe il fanciullo Gesù è di esempio anche per i grandi: «Impariamo anche noi a essere sottomessi come figli ai nostri genitori. Il maggiore si sottomette al minore… Gesù, che è Figlio di Dio, si sottomette a Giuseppe e a Maria, e io non mi sottometterò al vescovo, che è stato a me costituito da Dio come padre? Penso che Giuseppe sapesse che Gesù era più grande di lui e gli comandava con trepida moderazione. Consideri ognuno che spesso colui che è soggetto, in realtà è più grande; se lo comprenderà, colui che è più in alto per dignità non si esalterà con superbia, sapendo che gli è sottomesso uno che è migliore…» (XX, 5).
Ambrogio sottolinea che Gesù era sottomesso non solamente al Padre celeste, ma anche a Maria e a Giuseppe: «Questa sottomissione non è dovuta a infermità, bensì a pietà… Quale maestro delle virtù sarebbe, se non adempisse ai doveri della pietà» filiale? Il Figlio, rivestito di umana carne, «parla con umana affezione». La sua deferenza e sottomissione al padre putativo e alla madre ha valore esemplare: «Riconosci gli esempi di pietà. Impara che cosa si deve ai genitori!» (Esposizione del Vangelo secondo Luca II, 63-66).
Dalla sottomissione di Gesù ai genitori Basilio di Cesarea († 378), asceta e maestro di spirito, trae un insegnamento per i monaci, insistendo in modo specifico sul lavoro: «Obbedendo ai genitori fin dalla più tenera età, sostenne umilmente ogni fatica corporale. Poiché erano uomini onesti e giusti, e tuttavia poveri, e avevano penuria del necessario – ne è testimone il presepe che servì al parto venerabile – appare manifesto che essi di continuo faticavano per procurarsi il necessario per la vita. Pienamente loro sottomesso, come attesta la Scrittura, Gesù lo fu loro anche sostenendo un lavoro faticoso» (Regole LXXVI; cf. Catena aurea, l. 14)
3. Nel corso dei secoli
Il medioevo eredita l’interpretazione patristica sia in ambito monastico sia in quello accademico. L’esegesi monastica è ben rappresentata da Bernardo di Chiaravalle e Aelredo di Rievaulx. Commentando la parola rivolta da Maria al figlio dodicenne, il primo esclama: «Maria osa chiamare suo figlio colui che è Dio e signore degli angeli!… Sapendo di essere sua madre, con fiducia chiama figlio quella maestà alla quale essi servono con reverenza. Dio non sdegna di essere chiamato ciò che si è degnato di essere. Poco più avanti, infatti, l’evangelista soggiunge: “Ed era loro sottomesso”. Chi? A chi? Dio a degli esseri umani. Dio, dico, al quale gli angeli sono sottomessi, al quale i principati e le potestà obbediscono, era sottomesso a Maria; e non solamente a Maria, anche a Giuseppe a motivo di Maria. Ammira dunque ambedue, e scegli che cosa è più ammirevole, se la benignissima degnazione del figlio o l’eccellentissima dignità della madre […]. Impara, o uomo, a obbedire! Impara, terra, a sottostare. Impara, polvere, a sottometterti. Parlando del tuo creatore, l’evangelista dice: “Era loro sottomesso”… Dio si umilia, e tu ti esalti? Dio si sottomette a degli uomini, e tu volendo dominare sugli uomini, ti metti al di sopra del tuo creatore?…» (In laudibus Virginis Matris, 1,7-8).
Un altro esempio di esegesi monastica è il De evangelica lectione “cum factus esset Jesus annorum duodecim” di Aelredo, abate di Rievaulx (sec. XII). Il commento del cisterciense si caratterizza per la sensibilità affettiva. Muovendo dalla littera del racconto, il monaco inglese sottolinea l’amabilità di Gesù: piccoli e anziani, tutti ne desideravano la compagnia. Ciò spiega come fu possibile che i genitori lo abbiano smarrito. Il rimprovero materno di Maria scaturisce dal desiderio della sua dolce presenza: «tanto era dolce, tanto era bello, tanto era soave, che la sua breve assenza è motivo del più grande dolore» (I, 8). Giunto alle parole «Gesù progrediva in sapienza, età e grazia…», Aelredo si confessa smarrito di fronte alla varietà delle opinioni dei commentatori: alcuni ritengono che l’anima di Gesù, assunta dal Verbo, possedeva una sapienza divina; altri che egli abbia fatto progressi nella sapienza, così come nell’età, dal momento che era vero uomo. Il pio monaco conclude: «Se la vedano quelli che sanno discettare di questi argomenti» (I, 10)!
Passando al senso spirituale del testo, l’abate di Rievaulx istituisce un parallelo tra la crescita di Gesù e la crescita spirituale del cristiano. Se la conversione è come l’inizio della vita spirituale, anche la crescita di Gesù si deve riprodurre in noi. Infatti, «come il Signore Gesù è concepito e nasce in noi, così pure cresce in noi finché tutti raggiungiamo l’uomo perfetto, nella misura dell’età della pienezza di Cristo» (II, 4; cf. Ef 4,13). Dio eterno e immutabile, secondo la carne Gesù «nacque bambino, progredì e crebbe» affinché noi potessimo nascere spiritualmente, crescere e progredire. Come la sua nascita corporale è modello della nostra nascita spirituale, ossia della nostra conversione, così «la sua educazione a Nazaret esprime il nostro progresso nella virtù» (II, 11).
Nella terza parte Aelredo riprende il tema del progresso spirituale. Come a Betlemme egli nasce piccolo e povero, a Nazaret è allevato e a dodici anni sale a Gerusalemme, così dopo l’inizio della vita buona, viene l’esercizio della virtù e, finalmente, la contemplazione dei segreti celesti. L’abate di Rievaulx scandisce il progresso spirituale anno per anno, fino al dodicesimo, quando l’anima purificata contempla lo sposo nella Gerusalemme celeste (III, 20-22).
L’esegesi scolastica
La lettura dei testi evangelici in ambiente accademico è egregiamente rappresentata da Tommaso d’Aquino e Bonaventura di Bagnoregio. Tommaso raccoglie nella Catena aurea il fior fiore dell’esegesi patristica e nella Summa tratta estesamente i misteri della vita di Cristo (Pars tertia: Quaestiones XXX -LVIII), ma dalla presentazione al tempio passa al battesimo e alle tentazioni, sorvolando sulla crescita di Gesù. A questa si riferiva tuttavia la Quaestio septima (de gratia Christi, prout est quidam singularis homo). Facendo leva su Lc 2,52, nell’art. 12 Tommaso afferma che «gratia Christi potuit augeri». Ritorna sull’argomento nelle Quaestiones disputate de veritate. Prendendo lo spunto dalle parole «puer Iesus proficiebat sapientia, etc.», Tommaso si pone il problema se era possibile che Gesù progredisse «secundum sapientiam increatam» (q. XX). Il tema sarà approfondito dai commentatori di Tommaso, per es., Francisco Suárez (1548-1617), il quale sostiene che fin dalla concezione l’anima di Cristo ebbe la scientia beata e la visio beata, ossia la conoscenza diretta e immediata di Dio. Tuttavia, in quanto vero uomo ebbe anche la scientia acquisita, sia come scientia experimentalis sia come scientia factibilium (Commentarii et disputationes in Tertiam partem D. Thomae, Q. IX).
A Tommaso è attribuito il sermone “Puer Jesus”, che riguarda in modo più diretto il nostro argomento e rappresenta un ottimo saggio di attualizzazione spirituale e pedagogica di Lc 2,41-52. La crescita di Gesù in sapientia, aetate et gratia è modello della crescita umana, intellettuale e spirituale degli adolescenti. Suscita stupore il fatto che «l’eternità progredisca nell’età, la verità nella sapienza, l’autore della grazia nella grazia». Il profectus di Gesù nell’età non crea problemi; egli però cresce unicamente quanto al corpo, non quanto all’anima, perché «fin dalla sua concezione l’anima beatissima, unita a Dio, era piena di ogni grazia e verità» (cf. Gv 1,14). Come dobbiamo intendere il progresso nella sapienza? Nel senso che Gesù manifestò a poco a poco quella sapienza che possedeva ab aeterno come Figlio di Dio e della quale era ripieno fin dalla concezione. Questo per una duplice ragione: «per comprovare la verità dell’umana natura e per dare a noi un esempio di progresso nella sapienza». L’uomo, infatti, deve crescere non solamente nel corpo, ma altresì nella mente, o nell’anima (cf. 1Cor 14,20). Crescere solamente nel corpo e non nella mente sarebbe «mostruoso, dannoso, grave e pericoloso».
Come si cresce nell’età della mente? Quando si cresce «in sapienza e grazia». Quanto alla grazia, ne è segno la pace, la quale dev’essere «profonda, costante e perseverante…». E, «come il progresso della grazia si rende evidente nella pace, così il progresso della sapienza nella contemplazione». Il fatto che Gesù è ritrovato nel tempio, dimostra appunto il suo «amore per la contemplazione». Ora, perché l’uomo progredisca nella sapienza è necessario che «ascolti volentieri, ricerchi con diligenza, risponda con prudenza e mediti attentamente». In Gesù dodicenne, che s’intrattiene nel tempio, si rivelano questi quattro atteggiamenti. Con le sue risposte Gesù mostra, inoltre, che la sapienza si acquisisce «comunicando con gli altri». L’inciso «davanti a Dio e agli uomini» suggerisce un ultimo aspetto: il progresso nell’umana conversazione, che a sua volta esige quattro qualità: «la pietà, la purezza, l’umiltà e la discrezione». Infine, la risposta a Maria (Lc 2,47) mostra che l’obbedienza di Gesù si caratterizza per la discretio: «era loro sottomesso in tutto ciò che non lo distoglieva da Dio».
Classico esempio di esegesi biblica in ambiente scolastico è il commento di Bonaventura al Vangelo secondo Luca. Attingendo alla tradizione patristica nonché alle risorse della dialettica, esso si presenta sistematico ed è finalizzato alla predicazione. Chiave di lettura della parte dedicata all’infanzia di Gesù è il paolino “factus sub lege” (Gal 4,4): nella circoncisione egli si sottopone alla legge “sacramentale”; nella presentazione al tempio alla legge “cerimoniale”; nell’episodio del pellegrinaggio al tempio si sottomette alla legge “morale”. Questo quanto al culto della divina Maestà («reverentia maiestatis divinae»), quanto alla ricerca della verità («studium veritatis»), quanto all’ossequio dell’obbedienza («officium pietatis») (n. 91).
Il comportamento di Gesù dodicenne manifesta la sua religiosità. Il fatto che lo si debba rintracciare «in loco orationis» contiene un ammonimento: «ut ab ipsa infantia divino cultui mancipemur», specialmente a partire dal dodicesimo anno, «quia tunc incipit tempus discretionis convertendae ad bonum» (n. 99). Lo «studium veritatis» di Gesù dodicenne è illustrato ricorrendo a Fil 2,5ss: l’evangelista descrive «eius humiliationem in assumendo discipuli formam, eius clarificationem in aperiendo sapientiae praerogativam» (n. 100). La scena del ritrovamento di Gesù nel tempio in mezzo ai dottori, oltre che ad amare il «consortium studentium» (n. 101) insegna che «ante debemus discere quam docere […]. Et ideo voluit in medio doctorum inveniri et in templo, quia in Scripturarum lectione et in oratione veritas invenitur» (n. 102). Dopo la humiliatio, la clarificatio di Gesù si manifesta nello stupore suscitato dalla sua intelligenza e dalle sue risposte (n. 104). Anche sotto il terzo aspetto («officium pietatis») alla humiliatio segue la clarificatio. Gesù si umilia «in subiacendo corripienti et in obsequendo praecipienti» (n. 105). Alla domanda della madre «respondet humiliter et sapienter» (n. 106); «cum correptus est, se humiliter excusavit» (n. 107). Al tempo stesso, rimandando alla volontà del Padre celeste «insinuavit quod pietas ad Deum praeferenda est pietati respectu parentum». La clarificatio di Gesù avviene «per matris testimonium» («Mater eius conservabat omnia verba haec…», n. 109) e per quel «propriae virtutis indicium», che consiste nella sua crescita (n. 110).
Dalla crescita di Gesù scaturisce un triplice ammaestramento: «Ex praedictis… colligere possumus qualiter intendere debemus cultui divinae Maiestatis, studio veritatis et obsequio pietatis. Nam cultus divinae Maiestatis praeoccupari debet ab infantia, praeferri debet ceteris pro reverentia divina. Studium veritatis debet esse cum debita societate, scilicet puerorum, et debito ordine, ut prius sit discipulus quam magister. Obsequium pietatis attenditur ad hoc, quod subiiciamur patri spirituali, sive corripienti, sive praecipienti. Et, si haec servamus, tunc sequitur illud quod ultimo ponitur, quod proficimus apud Deum et homines» (n. 111).
La “devotio moderna” e la religiosità popolare
Nel lungo periodo che va dal Medioevo al sec. 19° i teologi si limitano per lo più a elaborare speculativamente la questione della scientia Christi. L’attenzione alle dimensioni specifiche del “mistero” è tenuta viva dalla Liturgia, da autori di opere spirituali e nella devozione popolare. Nei secc. XIV-XV la devotio moderna, che si caratterizza per una religiosità intima e soggettiva, diffonde la meditazione della vita di Cristo come modello da imitare. Valgano, come esempio, la Vita Christi di Ludolfo di Sassonia e le Meditationes vitae Christi dello Pseudo-Bonaventura:
«Hai visto quanto grandi povertà, modestia ed durezza, nella veglia, nel sonno, nella rinuncia, in tutte le sue azioni, il Re dei re e il Signore eterno ha sopportato per tanto lunghi tratti di tempo a nostro vantaggio. Dove sono mai coloro che cercano ozi e comodità, che cercano cose superflue ed ornamenti, che cercano stranezze e vanità? Se desideriamo cose simili non siamo stati alla scuola di questo maestro. Ma forse siamo più sapienti di lui? Egli ci ha insegnato con la parola e con l’esempio l’umiltà, la povertà, la fatica del corpo e del lavoro. Seguiamo dunque il più grande maestro, che non vuole ingannare né può essere ingannato, ed avendo, secondo la dottrina dell’apostolo, il cibo e ciò di cui vestirci in base ad una congrua esigenza e non in sovrabbondanza, di queste cose siamo soddisfatti (cf. 1Tm 6,8)» (Vita Christi, Parte prima, cap. XVI).
«Vedete questa famiglia tra tutte benedetta, ma che osserva una rigorosa povertà e conduce una vita affatto umile. Il beato Giuseppe traeva ciò che poteva dal suo lavoro di falegname. Con l’ago e la conocchia Maria trovava qualche mezzo di sostentamento e si occupava delle faccende domestiche […]. Gesù l’aiutava e s’impegnava con alacrità in tutto ciò che poteva fare; non era venuto, infatti “per essere servito, ma per servire” (cf. Mc 10,45) […]. Considerate poi come tutti i giorni questi tre santi personaggi mangiano insieme alla stessa tavola, per nulla ansiosi di avere un cibo squisito e ricercato, ma contenti di un pasto che rivela la sobrietà e la povertà» (Meditationes vitae Christi).
Da questa corrente di spiritualità dipendono anche gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola: «Voir Jésus, se rendre présent a lui pour l’imiter, tel est le programme que ces écrits propagent» (H. J. Sieben, Dictionnaire de Spiritualité X, 1880). La preghiera mariana del Rosario, nata in ambiente cisterciense nel sec. XIII, è diffusa soprattutto dai frati Predicatori o Domenicani. Il quarto dei misteri gaudiosi è dedicato al ritrovamento di Gesù tra i dottori del tempio.
Letteratura spirituale e ricerca esegetica
Ai Misteri della vita di Cristo prestò grande attenzione nel sec. 17° la cosiddetta “scuola francese”. Ne trattano i Discours de l’état et des grandeurs de Jésus e la Vie de Jésus del card. Pierre de Bérulle († 1629) e le Considerazioni sui misteri di Gesù Cristo di Charles de Condren († 1641). Le Elevazioni a Dio sui misteri di Jacques-Bénigne Bossuet († 1704) sono distribuite in 25 settimane. La 20a è dedicata a «la vita nascosta di Gesù fino al suo battesimo». La prima elevazione è intitolata: «Gesù cresce in età, saggezza e grazia»; la quarta, la quinta, la sesta e la settima commentano l’episodio del tempio; nell’ottava si tratta del «ritorno di Gesù a Nazaret», della «sua obbedienza e sua vita nascosta coi genitori»; tema dell’undicesima: «Il progresso di Gesù è il modello del nostro». Nel Cathécisme historique di Claude Fleury (1683) la lezione 28a è dedicata all’infanzia di Gesù. Il breve riassunto dei dati evangelici termina con queste parole: «Egli lavorò con san Giuseppe nel mestiere di falegname e rimase così nascosto fino all’età di trent’anni, trascorrendo la sua giovinezza nell’umiltà, nella povertà e nel lavoro, per darcene l’esempio».
Nell’epoca caratterizzata dall’illuminismo e dal positivismo storico si sviluppa una ricerca del “Gesù storico”, talora confluita in “Vite di Gesù” di stampo razionalistico. Ne sono un esempio quella di Ernesto Renan, il quale enfatizza l’ambiente povero e i limiti della formazione culturale di Gesù, e quella più equilibrata di Charles Guignébert. In area cattolica compaiono numerose “Vite di Gesù” di valore teologico oppure edificanti. Notevole successo ha avuto in Italia quella di Giuseppe Ricciotti, il quale colloca la vicenda di Gesù nel suo ambiente storico e culturale. Teologicamente solido è il commento ai passi lucani sulla crescita: «C’era dunque in Gesù uno sviluppo ed un accrescimento, e non soltanto esteriore davanti agli uomini, ma anche interiore davanti a Dio. Come egli cresceva fisicamente e si sviluppavano le sue facoltà sensitive, così crescevano le sue cognizioni sperimentali, ed egli diventava man mano fanciullo, ragazzo, giovane, uomo maturo, fisicamente ed intellettualmente. Gli antichi doceti negarono la realtà di questo sviluppo e lo considerarono solo apparente e fittizio, perché sembrava loro incompatibile con la divinità di Cristo. Ma appunto Cirillo d’Alessandria, l’implacabile avversario di Nestorio e strenuo assertore dell’unità di Cristo, sostiene che in Gesù le leggi della natura umana conservarono tutto il loro valore, compresa quella dello sviluppo fisico e intellettuale».
Superando lo scetticismo circa l’attendibilità della fonti evangeliche, la cosiddetta “terza ricerca” ne ricostruisce la vicenda con l’ausilio delle scienze antropologiche e storiche più avanzate. A questa stagione appartiene la poderosa monografia sul Gesù storico di John Meier, il quale tratta ampiamente il tema della sua formazione e quello della condizione socio-economica. Riguardo all’adolescenza di Gesù, afferma: «Si deve supporre sulla base delle leggi della natura e dell’analogia storica che Gesù, da ragazzo e adolescente, abbia sperimentato uno sviluppo fisico, sessuale, intellettuale e religioso. Non solo non c’è niente nel N.T. che contraddica tale presupposizione, ma alcuni testi implicano precisamente questa normale maturazione». Cautamente il gesuita americano aggiunge: «Al tempo stesso, le vaghe generalizzazioni dell’analogia storica non ci portano molto lontano… Che Gesù sia passato attraverso un considerevole sviluppo intellettuale e psicologico nel passaggio dall’infanzia all’età adulta si può ritenere certo. Non possiamo però dire cosa comportasse esattamente nel suo caso questo sviluppo…» (Un ebreo marginale, I, 240).
Dal Marmion al “Catechismo della Chiesa Cattolica”
Mentre la ricerca storico-critica su Gesù approdava a risultati piuttosto magri dal punto di vista teologico, questi si rivelano più ricchi quando un abate benedettino, dom Columba Marmion, pubblica le conferenze spirituali e liturgiche che ha tenuto ai suoi monaci. L’abate di Maredsous (Belgio) si sofferma sul carattere esemplare dell’incarnazione: il Verbo «Dio si è degnato di rendersi visibile… innanzitutto per istruirci: Apparuit erudiens nos (Tt 2,12) […]. Non avremo da far altro che guardar crescere questo fanciullo, guardarlo vivere in mezzo a noi e come noi, come uomo, per conoscere come noi dobbiamo vivere dinanzi a Dio, da figli di Dio» (Cristo nei suoi misteri, orig. franc. 1919; trad. ital., 106s). Circa la “vita nascosta”, il Marmion osserva: «Di una esistenza di trentatré anni, colui che è la sapienza eterna ne ha voluti passare trenta nel silenzio e nell’oscurità, nell’obbedienza e nel lavoro. Vi è qui un mistero e un insegnamento di cui molte anime non riescono a cogliere il senso completo…» (p. 144).
Sulla scia del monaco benedettino, con diversa sensibilità, il salesiano Joseph Aubry porta la sua attenzione sulla gente comune, sul mondo operaio e sulle famiglie. Ottimo teologo, egli avverte che l’incarnazione del Verbo è «una realtà dinamica» che attraversa l’intera esistenza umana. Essa non riguarda solamente l’annunciazione, ma «si estende a ciascuna nuova esperienza con la quale il Figlio di Dio realizza sempre di più la sua situazione di figlio dell’uomo»: dalla nascita «…al tempo della lenta crescita nell’infanzia e nell’adolescenza. Essa prosegue e si estende lungo tutta la vita nascosta…». Allo stesso modo, anche la redenzione è «realtà egualmente dinamica… L’incarnazione e la redenzione camminano insieme…». Come già il bambino di Betlemme è detto «salvatore» (cf. Mt 1,21; Lc 2,11), così «le fatiche della vita nascosta, tutta l’attività della vita pubblica sono egualmente redentrici…» (I misteri di Gesù salvatore, orig. franc. 1961; trad. ital. 1962, pp.53-55).
Perché Luca segnala ben due volte la crescita di Gesù? Per essere salvatore universale, «egli ha scelto di condividere la sorte della maggioranza, di prendere la condizione umana in tutto ciò che ha di più usuale, di più umile, di più semplice, di più vicino alla verità umana, di più rappresentativo… e di vivere così una vita filiale perfetta, in nome di tutti gli uomini in cammino verso il Padre […]. La fedeltà alla legge dell’incarnazione spiega quella lenta crescita e quella lunga monotonia degli anni di Nazaret […]. Quell’età costituì una nuova tappa dell’Incarnazione progressiva» (pp. 86-89). Nazaret «è uno dei grandi misteri rivelatori e redentori… è il luogo della terra in cui l’Antico Testamento si tramutò nel Nuovo Testamento» (p. 84). Della vita nascosta di Gesù l’Aubry mette in rilievo soprattutto due aspetti: la famiglia e il lavoro. Gesù cresce in una famiglia povera e sperimenta una povertà laboriosa, come la maggior parte degli uomini. Riceve l’educazione dei poveri e apprende l’arte del falegname. Tutto ciò ha una valenza redentrice (p. 102).
Commentando con sensibilità femminile Lc 2,52, suor Maria Ko scrive: «L’amore tenero della madre espresso nel momento della nascita accompagnerà il figlio in ogni fase della sua vita […]. L’accompagnamento di Maria non si limita ai momenti importanti della vita di Gesù, ma si realizza anche e soprattutto nel quotidiano […]. Insieme con Giuseppe, Maria lo educa, lo inizia a capire se stesso e a discernere la volontà di Dio su di lui, lo introduce alla conoscenza del mondo, della società, delle tradizioni, della Legge e di tutte quelle piccole cose che sono frutto di saggezza e di esperienza, e che possono essere trasmesse solo dalla madre. È interessante notare come, insieme alla descrizione della crescita di Gesù, Luca rivela qualcosa anche riguardo a Maria: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Si tratta di un crescere insieme, un accompagnamento reciproco, madre e figlio, in aiuto vicendevole. Maria aiuta Gesù a crescere “in sapienza, età e grazia” e Gesù aiuta sua madre a crescere in memoria, accoglienza, riflessione, grandezza di mente e di cuore, nella partecipazione sempre più cosciente e profonda al mistero della salvezza» (“E c’era la madre di Gesù” (Gv 2,1). Icone biblico-mariane di accompagnamento, in P. Ruffinatto – M. Séïde, a cura di, Accompagnare alla sorgente in un tempo di sfide educative, Roma 2010, 115-135; citaz.: p.123-125).
La riflessione propriamente teologica – secondo il concetto classico di teologia speculativa e dommatica – prosegue nel vol. VI dell’opera Mysterium salutis (1969). Sulla base di una magistrale trattazione di Alois Grillmeier sui misteri della vita di Gesù, il benedettino Raphael Schulte tratta in particolare i misteri della “preistoria” di Gesù (pp. 36-79). Qualche anno dopo Mario Serenthà ne offre una trattazione sintetica nel Supplemento al Dizionario Teologico Interdisciplinare (Torino 1978, pp. 9-24). La crescita di Gesù, come rivela l’episodio del pellegrinaggio al tempio, «comporta una sempre più approfondita consapevolezza delle esigenze della sua dedizione al Padre e del particolare legame che lo lega a lui, appunto come suo “Padre”». La sua vita nascosta è sotto il segno della tensione tra il rapporto che egli ha con Colui che abita nella casa di Dio e la sua sottomissione alla Legge come qualunque altro giovane israelita. «Egli è veramente uno di noi, nato e cresciuto in un popolo determinato, educato agli usi e costumi dei suoi connazionali: non nonostante questo, ma in questo egli è la rivelazione di Dio, il compimento delle promesse antiche, l’inizio del nuovo popolo di Dio (Mt), di una nuova umanità (Lc)» (p. 24).
Una buona sintesi del patrimonio tradizionale sul tema è offerta dal Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 531-534) edito nel 1992. Ricordando che «tutta la vita di Gesù è rivelazione del Padre», «tutta la vita di Gesù è mistero di redenzione», «tutta la vita di Gesù è mistero di ricapitolazione» (vedi Ireneo di Lione), esso indica il triplice significato dei misteri della sua vita: «Cristo ha vissuto la sua vita per noi»; «durante tutta la sua vita, Gesù si mostra come nostro modello»; «tutto ciò che Cristo ha vissuto, egli fa sì che noi possiamo viverlo in Lui e che egli lo viva in noi» (nn. 516-521). La rilettura della “vita nascosta” di Gesù, che troviamo nel Catechismo, echeggia le riflessioni che abbiamo rintracciato nel lungo cammino dai Padri della Chiesa ai nostri giorni:
«Durante la maggior parte della sua vita, Gesù ha condiviso la condizione della stragrande maggioranza degli uomini: un’esistenza quotidiana senza apparente grandezza, vita di lavoro manuale, vita religiosa giudaica sottomessa alla Legge di Dio (cf. Gal 4,4), vita nella comunità. Riguardo a tutto questo periodo ci è rivelato che Gesù era sottomesso ai suoi genitori e che «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini (Lc 2,51-52)» (n. 531).
«Nella sottomissione di Gesù a sua Madre e al suo padre legale si realizza l’osservanza perfetta del quarto comandamento. Tale sottomissione è l’immagine nel tempo dell’obbedienza filiale al suo Padre celeste. La quotidiana sottomissione di Gesù a Giuseppe e a Maria annunziava e anticipava la sottomissione del Giovedì Santo: “Non … la mia volontà…” (Lc 22,42). L’obbedienza di Cristo nel quotidiano della vita nascosta inaugurava già l’opera di restaurazione di ciò che la disobbedienza di Adamo aveva distrutto (cf. Rm 5,19)». (n. 532)
«La vita nascosta di Nazaret permette ad ogni uomo di essere in comunione con Gesù nelle vie più ordinarie della vita quotidiana: “Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. […] In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile e indispensabile dello spirito […]. Essa ci insegna il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile […]. Infine impariamo una lezione di lavoro. Oh! dimora di Nazaret, casa del “Figlio del falegname”! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana […]. Infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello” (Paolo VI, discorso del 5 gennaio 1964)». (n. 533)
«Il ritrovamento di Gesù nel Tempio (Lc 2,41-52) è il solo avvenimento che rompe il silenzio dei Vangeli sugli anni nascosti di Gesù. Gesù vi lascia intravvedere il mistero della sua totale consacrazione a una missione che deriva dalla sua filiazione divina: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Maria e Giuseppe “non compresero” queste parole, ma le accolsero nella fede, e Maria “serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51) nel corso degli anni in cui Gesù rimase nascosto nel silenzio di una vita ordinaria». (n. 534)
4. Per una teologia dell’educazione
Gli albori di una teologia dell’educazione cristiana si scorgono nei Padri della Chiesa, anzitutto in Clemente di Alessandria, il quale indicava in Gesù il vero pedagogo: «Il nostro Pedagogo è il santo Dio Gesù, il Logos, guida di tutta l’umanità» (Il Pedagogo, I, 98, 2). Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisostomo (Sulla vanità e l’educazione dei figli) e Agostino (De catechizandis rudibus), San Tommaso e via via altri, fino ai più recenti documenti del Magistero ecclesiale (l’enciclica Divini illius Magistri di Pio XI e il decreto Gravissimum educationis del Vaticano II) hanno arricchito la consapevolezza teologica della Chiesa nei confronti della propria missione educativa. Una vera e propria teologia dell’educazione è nata in Germania nel sec. 20°. In Italia è stata introdotta dal salesiano Giuseppe Groppo (Teologia dell’educazione, Roma 1968; nuova ediz. 1991).
Il testo conciliare offre un’ottima sintesi dell’idea di “educazione cristiana”: «Tutti i cristiani, in quanto rigenerati nell’acqua e nello Spirito Santo, sono diventati una nuova creatura, quindi sono di nome e di fatto figli di Dio, e hanno diritto a un’educazione cristiana. Essa non mira solo ad assicurare quella maturità propria dell’umana persona, di cui si è ora parlato, ma tende soprattutto a far sì che i battezzati, iniziati gradualmente alla conoscenza del mistero della salvezza, prendano sempre maggiore coscienza del dono della fede, che hanno ricevuto; imparino ad adorare Dio Padre in spirito e verità (cf. Gv 4,23) specialmente attraverso l’azione liturgica; si preparino a vivere la propria vita secondo l’uomo nuovo nella giustizia e santità della verità (cf. Ef 4,22-24) e cosi raggiungano l’uomo perfetto, la statura della pienezza di Cristo (cf. Ef 4,13), e diano il loro apporto all’aumento del suo corpo mistico» (“Gravissimum educationis”, n. 2).
Al patrimonio dottrinale che abbiamo esplorato si accompagna una esperienza altrettanto importante: la prassi educativa cristiana. Sarebbe necessario fare un percorso analogo nella storia vissuta del popolo cristiano, ben più ricca e complessa di quella che di solito si chiama “Storia della Chiesa”. Scopriremmo che da Leonida, padre di Origene, a Monica, madre di Agostino, a mamma Margherita, la madre di Giovanni Bosco, a tanti semplici padri e madri di famiglia, guidati dalla fede e sostenuti dalla grazia, hanno interpretato egregiamente la loro missione, sul modello dei due “genitori” di Gesù.
Il messaggio pedagogico di Don Bosco
Esponente insigne della tradizione educativa cristiana è il «padre e maestro degli adolescenti», san Giovanni Bosco. Nell’omilia pronunciata per la sua canonizzazione il giorno di Pasqua del 1934, Pio XI scolpì la figura del santo educatore: «Il segreto per cui il suo sistema educativo ottenne frutti così copiosi e numerosi è tutto qui: egli attuava quei principi che si ispirano al Vangelo, che la Chiesa Cattolica ha sempre raccomandato… Egli mirava a formare nei giovani il cittadino e il cristiano, il perfetto cittadino degno figlio della patria terrena, il perfetto cristiano meritevole di divenire un giorno membro glorioso della patria celeste». In chiara polemica con i programmi fascisti in campo educativo, il “Papa di Don Bosco” continuava: «Per lui l’educazione non dev’essere soltanto fisica, ma soprattutto spirituale… deve soprattutto esercitare e rafforzare lo spirito… Educazione, quindi, piena e completa che abbracci tutto l’uomo, che insegni le scienze e le discipline umane, ma che non trascuri le virtù soprannaturali e divine» (cf. Don Bosco nell’augusta parola dei Papi, Torino 1963, p. 51).
Il Sistema preventivo, scrisse Don Bosco, tutto si fonda su «la ragione, la religione e l’amorevolezza» (Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, I). Il suo scopo – secondo una formula spesso ripetuta, con leggere variazioni, – è «fare buoni cristiani e onesti cittadini». Il principale studioso del pensiero educativo di Don Bosco così traduce: fine dell’educazione è «la maturità umana e cristiana del giovane» Tale «integralità educativa cristiana» è in varie maniere ma costantemente formulata da Don Bosco, ad es. quando definisce l’educatore come «un individuo consacrato al bene de’ suoi allievi», che «perciò dev’essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale, scientifica educazione de’ suoi allievi», come quando al termine di una festa in suo onore dice ai ragazzi che «l’unico scopo dell’Oratorio è di salvare anime» (P. Braido, Il sistema preventivo di Don Bosco, Torino 1955, 135s.140. Citazioni: Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, III; Memorie Biografiche, IX, 295).
Nell’esaminare gli elementi religiosi del sistema educativo di Don Bosco, Pietro Stella afferma: «Il “sistema educativo” di Don Bosco appare essere di più che una teologia o una pedagogia teologica. Tale sistema tende – come diceva il card. Alimonda – a “divinizzare” il mondo; è, in altri termini, nella sua anima più profonda, una spiritualità» (Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, Vol. II. Mentalità religiosa e spiritualità, Zürich 1969, 474; cf. G. Alimonda, Giovanni Bosco e il suo secolo. Ai funerali di trigesima…, Torino 1888, p. 7).
Alcune conclusioni
Ritorniamo alla domanda iniziale: il fatto che Gesù, prima di essere un maestro è stato “adolescente”, un bambino che cresce, diventa fanciullo, ragazzo, giovane, uomo adulto, ha qualcosa da dire alla teologia dell’educazione? In altre parole, la crescita di colui che è il Figlio di Dio, ma anche pienamente uomo, non dovrebbe essere il paradigma di ogni crescita umana e cristiana? Di più questo lungo periodo dell’Incarnazione salvifica non ha forse valore “redentivo” per ogni adolescenza? Dall’esplorazione fatta penso possiamo trarre alcune conclusioni.
• Come la crescita di Gesù, così la crescita di ogni essere umano, chiamato a diventare “figlio di Dio” in Cristo (cf. Gv 1,12; Gal 3,26), ha due dimensioni, tra loro inseparabili: quella umana appunto e quella “cristiana”. Una educazione può essere detta “cristiana” quando è integrale, quando cioè il suo obiettivo è la piena realizzazione della persona nelle sue potenzialità naturali e nella sua vocazione più alta e definitiva: come figli nel Figlio, nella comunità ecclesiale, in una vita illuminata dalla fede e sostenuta dai sacramenti.
• Di conseguenza, una educazione autenticamente cristiana valorizza tutti gli strumenti educativi – la formazione culturale, l’educazione sociale, la cura della salute, lo sport, ecc. – che favoriscono la crescita umana, insieme con tutti i mezzi formativi che favoriscono la crescita spirituale e morale dell’adolescente. Ciò è compito insieme della famiglia e della Chiesa, che è “mater et magistra” non solamente come gerarchia e nelle sue truppe scelte – gli ordini religiosi e le loro istituzioni educative – ma altresì dei laici, in particolare dei genitori e degli educatori.
• Un’occasione unica per riflettere su questi temi è offerta da una triplice coincidenza: il Sinodo sulla famiglia, gli Orientamenti pastorali CEI per il decennio in corso (“Educare alla vita buona del Vangelo”), il secondo centenario della nascita di Don Bosco, il santo educatore per eccellenza. Don Bosco è un dono di Dio alla Chiesa perché ne ha realizzato in modo eminente e paradigmatico la missione educativa, che nel suo linguaggio semplice ma profondo, definiva così: “formare buoni cristiani e onesti cittadini”. Don Bosco è la bandiera di una educazione veramente integrale, che si pone in perfetto equilibrio tra l’educazione cosiddetta “laica” (nel senso di puramente razionalistica ed eventualmente agnostica) e una educazione cristiana sbilanciata sullo spirituale, ma che trascura i grandi valori umani: cultura, lavoro, società, ecc.
Risalire alla figura di Gesù adolescente e riandare il cammino della teologia, della spiritualità e della prassi educativa cristiana, permette di riscoprire le radici e il significato di una missione, alla quale è chiamato ciascuno di noi.
[Testo di una Conferenza di don Francesco Mosetto ai Docenti Universitari Cattolici di Torino]